Mi chiamo Francesco Calicchia, vivo a Napoli da circa quattro anni, ma sono originario della provincia di Roma. Vi racconto perché, da qualche anno, ho scelto di vivere a Napoli e come ho scoperto la Sanità.
La prima volta al Rione Sanità
Napoli per me è un “amore che mi ha rapito”, senza possibilità di negoziazione. Con la Sanità invece c’è voluto più tempo. Entrai nel quartiere solo dopo circa due anni dal mio arrivo a Napoli. Lo feci una notte, per accompagnare una ragazza, amica di un mio amico, nell’abitazione che la ospitava poco dopo Piazza della Sanità. Ricordo che mi sentivo terrorizzato: avevo letto e sentito di tutto sul quartiere, criminalità, aggressioni, stese.
Tornai a casa quella sera incolume, e pensai di essere stato fortunato. Ci ero passato davanti diverse volte, andando alla Stazione di Cavour, ma i palazzi che si affacciano su Via Foria precludono lo sguardo esterno, e l’unico modo per osservare il quartiere è addentrarcisi fisicamente.
Un’impresa eroica, quasi irresponsabile, per me che ero vittima dei pregiudizi e dei racconti che del quartiere mi erano arrivati.
Il fatto che il quartiere fosse protetto dallo sguardo esterno certamente non aiutava e così ho sempre desistito. La prima impressione era appunto spaesamento, per quella vita che si avvicendava e si scontrava con apparente violenza nello spazio della piazza dei Vergini, i colori vivaci, gli odori che ti colpivano da ogni angolo, il rumore dei motorini a cui bisogna fare attenzione, le urla, e i murales.
Di nuovo alla Sanità
Dopo quella prima visita notturna alla Sanità, scoprii nuovamente il disordine affascinante e spaesante di Borgo dei Vergini qualche tempo dopo. La mattina di un qualsiasi giorno feriale ritornai al Rione per motivi di studio. Quel giorno alla Sanità visitammo con il mio professore alcuni centri culturali del Rione. Poi ce ne andammo. Tornai da solo qualche tempo dopo per iniziare il mio lavoro di campo per la tesi di laurea. Anche questa volta Napoli aveva scelto per me.
Vedi Napoli e poi vacci a vivere
Da quel caos che non conoscevo mi feci subito rapire: ancora una volta Napoli era riuscita a colpirmi, inaspettatamente e con forza, come del resto mi aveva abituato in questi anni.
Vagando senza meta per i vicoli da un angolo all’altro della città, tra i muri vecchi che li privano della luce, a un certo punto mi si apriva uno scrigno. Spesso, nella normalità della routine di chi lì vive, scopro nuovi modi di vivere la città, o forme inedite per parlarsi, per litigare, ma anche per raccontare. E così, da allora, mi illudo di fare parte anche io di questo racconto corale.
A me, che arrivo da un paese senza storia e che non sa riconoscersi come tale, Napoli mi è sempre sembrata la mia destinazione naturale, la casa che ho scelto e che ci accoglie tutti, che mi si è aperta senza esitazione e che da me si è lasciata leggere ed ascoltare.
Non ho mai la sensazione che voglia raccontarsi, ma più che stia lì ferma e si lasci conoscere, con fiducia estrema e senza remore. Ti lascia entrare per leggere, osservare, ascoltare ma anche vivere. Sta poi ad ognuno il compito di interpretare ciò che ha provato.
Walter Benjamin definì Napoli “città porosa”, perché qui la vita attraversa le pareti, si mischia nelle case, contamina le famiglie e non ti lascia solo.
E la Sanità è così, porosa; nei vicoli stretti, nei piani ammezzati, nelle chiese nascoste agli angoli e spesso abbandonate (e a volte recuperate), ma anche nelle storie, che si confondono, si intrecciano e complicano la realtà pur rimanendo distintamente uniche.
Dopo la laurea, con il mio compagno, prendemmo casa ai Miracoli: decisi che avrei vissuto qui.
Feci le pratiche per prendere la residenza perché volevo non sentirmi più un passeggero temporaneo in questa città dove quasi per caso mi ero ritrovato a vivere; ma questa volta volevo sceglierla io, in modo ponderato e a lungo termine. La Sanità e Napoli ora erano il mio destino.
Cosa significa per me Casa della Memoria
Quando penso a una Casa della Memoria alla Sanità penso a questo, a renderla porosa, attraversabile, affinché la memoria non rimanga un esercizio fine a sé stesso, non sia chiusa negli archivi, ma divenga strumento per riflettere e riflettersi nello spazio e nel tempo, capire il passato e pensare al futuro. E perché questo avvenga, una Casa della Memoria, per come me la immagino io, non deve solo raccontare e farsi ascoltare, ma deve permettere a chiunque di maneggiarla, impastarla come fosse l’impasto della pizza e infine mangiarla. In altre parole,
voglio dire che la memoria di un territorio, piccolo o grande che sia, è un bene comune, e come tale va reso accessibile a chiunque, nella sua fruizione e anche nella sua costruzione.
Per farlo, è necessario creare una governance orizzontale e aperta per decidere cosa farne e come custodirla assieme a chi vive il territorio. Sono queste persone che “producono memoria”.
In questo senso, non sta a me dire cosa fare di questo strumento. Io sono un mezzo di raccolta, ma su quella memoria non ho diritti né voglio rivendicarne, perché non è solo mia. Posso solo dire che vorrei che fosse il territorio e coloro che abbiamo coinvolto in questo processo di raccolta a dire come dovrebbe essere la Casa della loro Memoria.